Installation View – PhotoCredit: Eleonora Cerri Pecorella

Seboo Migone, So Many Forgotten Sunsets

(26 novembre – 17 febbraio),

Galleria Alessandra Bonomo.

Seboo Migone racconta dei suoi quadri come tentativi di avvicinamento, a persone, memorie, luoghi intensamente vissuti e forse ora perduti. Niente nella sua opera è mai neutro – afferma, e guardandola è facile accorgersene, esperendo l’atmosfera evanescente di soave levità che irradiano questi dipinti dalle sagome decentrate, fuori fuoco, sfuggenti ad una definizione. C’è una complessità in tale atteggiamento, nella disposizione d’animo raccolta e concentrata di questi approcci a oggetti e soggetti prossimi ed inarrivabili – che vediamo immersi nell’abbacinante abbandono del torpore estivo, isolati in paesaggi saturi del calore del giorno – imbevuti di piccole e fragili sensazioni, come il corpo ricoperto di un sottile velo di sudore dopo un pomeriggio passato nella natura, nella sua beatitudine aspra e vitale. La dinamica di questo incontro avviene nell’incanto di una visione bucolica e mediterranea, e merita di essere esplorata, meditata gettando lo sguardo alle sue creazioni, vivendo il pensiero in continuum con il pensare della pittura, delle pennellate, delle stratificazioni che danno vita a queste immagini vibranti come miraggi.
Sarebbe riduttivo leggere questi “tentativi” nei termini di slanci propedeutici ad un’azione destinata ad estendersi e proiettarsi nel presunto mondo reale, quasi a rompere le schermo del quadro. Si potrebbe pensare, seguendo il presente ragionamento, che questo processo sarebbe naturalmente portato a giungere a un’ideale catarsi, traducendosi attraverso gesti ed eventi progressivamente emancipatisi di un lavoro con la materia-matrice che aveva accolto questa interiorità, votata adesso ad incarnarsi in una nuova pratica extrapittorica, dimentica della gravità della trama di complesse implicazioni che l’aveva sostenuta. Allora queste tele come dei gusci vuoti sfumerebbero sullo sfondo, divenuti scorze, residui di una narrazione altra, ancora da prodursi. Ma tutto ciò sarebbe troppo riduttivo, oltre che scorretto. Sarebbe come affidarsi a un principio evolutivo di linearità e consequenzialità che non tiene conto dell’intersezione dei piani, dell’essenza transtemporale del vissuto più profondo, della sua intrinseca ambivalenza, necessitante un linguaggio atto a farsi carico di questa aporia indescrivibile per presentarsi della sua assoluta ma veritiera incongruità.
Migone afferma che “Fare un quadro è come andare in un mondo diverso dove il tempo funziona in modo diverso” (Alan Jones, 2010), e allora questo tentativo di dialogo, incontro non rimane latente, sospeso, ma avviene, solo che si compie su un piano altro, in un tempo e uno spazio che risponde ad altre logiche, inconoscibili, abissali. Il miracolo della traduzione si realizza in questo modo grazie ad un linguaggio artistico abbastanza resistente da abbracciare l’intensità senza spezzarsi, abbastanza sensibile da coglierne le modulazioni più lievi e ineffabili; lasciare che esse si imprimano nella propria sintassi, che si incorporino nel pigmento e nella grafite passando attraverso la mano, il suo disegno, il suo dipingere. Un incanalarsi e concentrarsi di tensioni, fino a sciogliersi in un immaginario liquido come l’acquamarina degli oceani primordiali. Come dei “campi di forza”, queste rappresentazioni sospese tra figurazione sensoriale e astrazione lirica trattengono e condensano un contenuto sfuggente ma persistente. La traccia residuale di questa energia psichica, esteriorizzata, elaborata artisticamente, porta alla luce di un sole oramai tiepido e calante una visione venata di una malinconia sfumata, impalpabile, che si impone sullo “schermo” del dipinto come un alone opaco di condensa. Quasi la traccia di un respiro.
Questi tramonti, che sul punto di essere dimenticati vengono prontamente rievocati, raccontano di un momento molto speciale, colto di passaggio, dove emerge la vocazione narrativa della pittura di Migone. Nella prima sala troviamo subito il quadro introduttivo So Many Forgotten Sunsets, che conferisce il titolo alla mostra, accompagnato da due opere che nascono dall’incontro con delle fotografie: un viaggio fra memorie personali, Viola, e il ricordo di un’immagine intravista di una nave mercantile con un gruppo di greco -ortodossi protesi verso un vuoto, Cargo. La teca posta al centro dell’ambiente espone come fosse uno scrigno una raccolta di taccuini, anche piccolissimi, evocanti sensazioni di toccante intimità. Esibiscono il contenuto delle pagine disegnate al loro interno, come una serie di finestre aperte che si affacciano su una dimensione interiore che a sua volta si affaccia su un’esteriorità che è tale solo in apparenza. Mostrano un volto. Spesso il proprio, un motivo che esplora continuamente, o quello di persone care, offrendoci uno sguardo profondo e penetrante. Ci raggiunge da lontano, trasportando da quel territorio remoto dove ci guarda un’aura silenziosa e contemplativa. La densa superficie materica di questi disegni è come la polvere di un ricordo che si sfuma, si sfalda al più lieve tocco. Fittissima e stratificata, la materia accumulata di grafite impressa su queste pagine registra la corporeità dell’artista, la sua esperienza tattile e immaginifica, la traccia effimera del lavoro di intensificazione che conferisce una saturazione anche a queste opere in bianco e nero.
I motivi metapittorici della finestra, dell’autoritratto, della ripetizione e variazione del medesimo soggetto rivelano il formalismo del suo retroterra culturale e personale (Bonnard, Guston, Rothko), un campo ibridato con un afflato descrittivo e visionario, propriamente letterario, che contraddistingue la sua poetica. L’ultima sala raccoglie come una cappella ortodossa una copiosa serie di ritratti che ricordano icone, immagini ieratiche vicine ad una spiritualità orientale ma rifiutanti l’atemporalità tipica di tali teofanie, protese verso il sogno disincarnato di una creazione acheropita. Le icone di Migone, invece, sono intensamente narrative, e nel loro accostamento dialogano come una parete di ex voto, perché la memoria non resta mai pietrificata in un idolo, un feticcio slegato da una presenza reale. Agisce come un palinsesto in modo dialogico, creando un tessuto di relazioni fra di loro, fra l’artista e lo spettatore, fra il presente e il passato, che esprime un invisibile impalabile nella pienezza di un sensibile che parla, racconta anche gli aneliti più esitanti, appena accennati, delle possibilità concrete abitanti la superficie come una forma di vita.

Installation View – Ph:Eleonora Cerri Pecorella

So Many Forgotten Sunsets, 2021, oil on canvas, 255 x 343 cm – Ph:Eleonora Cerri Pecorella

Installation View – Ph:Eleonora Cerri Pecorella

Installation View – Ph:Eleonora Cerri Pecorella

Installation View – Ph:Eleonora Cerri Pecorella

Installation View – Ph:Eleonora Cerri Pecorella

Nightwatch, olio su tavola, 61 x 60 cm – Ph:Eleonora Cerri Pecorella

Viola 2021 Olio su tela 200 x 350 cm – Ph: Seboo Migone