Nicola Samorì, ROMA (manuale della mollezza e la tecnica dell’eclisse), 2021, installation view a Monitor, Roma – Ph. Giorgio Benni – Courtesy l’artista e Monitor Roma, Lisbona, Pereto
Con “Manuale della mollezza” Samorì abbandona il riferimento al repertorio di opere codificate e incensate della tradizione pittorica italiana – prevalentemente seicentesca -, supporto figurativo dell’evento in fieri delle sue performative defigurazioni. Sostituisce a queste imitazioni senza tempo le concrezioni di un immaginario polimorfo che si pone come sintesi non risolutiva di questo processo in atto, registrato sulla pelle dell’immagine: rappresentazioni autonome. Se nelle opere più conosciute la traccia del gesto distruttore si propaga come un’onda invisibile negli strati vivi della pellicola pittorica, un’epidermide instabile e sensibile capace di inghiottire la rappresentazione nella vitalità entropica dei propri movimenti interni, nella scultura Lingua la memoria di questa eredità riemerge. Corpi plastici, pose drammatiche costituiscono una forma di fantasmatica e remota autorità che anima la morfologia antropomorfa di questa creazione, costituendo un’ispirazione quasi involontaria ma irrinunciabile. Tutto ciò si riflette e si frammenta nella sala grazie al confronto con la serie di disegni preparatori che congelano e liberano il dinamismo della sua genesi. In questo rispecchiamento difforme, la natura informe del soggetto si moltiplica ma non si spersonalizza nelle rappresentazioni offerte. Di volta in volta variate, come in un ciclo senza inizio né fine, la virtualità della sua nascita si scompone e si moltiplica negli urli e degli spasmi della sua venuta al mondo brutale, gridata; possibilità immaginarie e traumatiche fissate su carta da un bisturi di china. Le trascrizioni di questa gestazione catturano istanti di possibilità interrotte, mutilate che fanno da corteo al protagonismo evasivo della sbilenca scultura.
Imbevuta dunque del fascino solenne e sepolcrale delle creazioni passate e della possibilità eretica (ed erotica) del loro disfacimento, Lingua coagula nel getto del suo movimento ad arco, sorta di zampillo di carne fluida e collosa, la violenza dell’origine e lo rovina della scomparsa. Quello che resta di questo evento turbinante è una sorta di conchiglia cava logorata e lavorata da un flusso che sembra esserle passato attraverso. Un relitto in avaria che compie un percorso erratico, dove la candida materia del marmo bianco di carrara passa dalla classicheggiante base alla scomposta fisionomia orgasmica e spasimante della testa, reclinata in un’estasi muta. Quest’ultima costituisce come il raddoppiamento perturbante di quel primo cranio decollato schiacciato dal passo leggerlo della figura, come la “sfera” di un numero di equilibrismo, solido eccentrico dove articolare il suo slancio diagonale. Se i delicati petali che decorano il supporto – bruciati o marcescenti – anticipano la temporalità tragica che trasforma questo volteggiare manieristico e aggraziato in una spirale tortile di dolore, il tenue candore di questa materia si illumina come una lampada ad arco di oscurità, rifulgente nei suoi anfratti dell’abbagliante nullità del vuoto. È ancora una superficie, infatti, quella che si scioglie, si coagula, si spiega e si dispone nello spazio, accogliendo questo vuoto e mostrando ancora una volta come non ci sia niente di più profondo della pelle. Ma in questo indugiare in un al di qua si rivelerebbe secondo il Nietzsche de La gaia scienza una forma di saggezza, quella dei greci antichi in particolare, popolo di superficiali “per profondità”.
Questa superfice non nasconde nulla, non struttura nulla perché è molle, come dichiara l’artista. Molle e non elastica nel senso che si dispiega in un movimento che può ricondurla all’origine, o morbida come i materiali sensorialmente più eccitanti, ma cedevole e debordante come tutto ciò che scivola e subisce il richiamo della gravità senza opporle resistenza, ricercando passivamente una complicità con la sua forza. Un’obliqua mancanza non di virilità ma di mascolinità fallica appartiene anche al dito dell’artista, che sollecita la zona erogena della superficie pittorica delle sue rappresentazioni senza penetrarla ricercando un al di là. È un agire tattile fisico e impalpabile che si diffonde sul campo esteso di un tessuto mollemente trasformabile, sfigurabile. Il pendant Madame, costituito da due dipinti marmorei (uno bianco e uno nero) pietrifica le pieghe ondulate di questo gesto creando e fissando un panneggio degenere, una sorta di monumento di questa pratica. Questo desiderio – alternativamente sublimato e desublimato – che prima si attualizzava nella lasciva mollezza dell’intreccio del pigmento e degli strati preparatori, ora si eternizza nella simbolica durezza del marmo, descrivendo un godimento artistico diffuso e decentrato che riverbera in ogni anfratto e piega della superficie, virtuosismo lirico di estrema raffinatezza.