Si tratta di un lavoro che genera contesto. L’oggetto installato viene talvolta preso, talvolta riprodotto, e ragionato insieme agli oggetti a lui vicini. Quindi viene preso e riprodotto anche il contesto che dovrebbe generare significato all’oggetto-segno. Il segno si trasforma da immagine in parole, ne assume lo stesso funzionamento. Sono parole che non sono soltanto veicolo di significato, referente di significanza, ma sono esse stesse forme e sostanza significanti. Non intendo dire che il segno viene detto o raccontato, ma che ogni segno in una esposizione di Camilla Gurgone funziona nella stessa maniera in cui funzionano le parole: fa da contenitore contestuale, genera significato senza soltanto simbolizzare, bensì rimanendo presente ed evanescente nel suo essere stato detto. Quello che si sviluppa è, a sua volta, un nuovo mondo di segni e simboli, generati appunto dal nuovo contesto che somiglia soltanto al precedente. Sono strade possibili che saturano ogni possibilità narrativa investendola di ambiguità, universi iper-testuali che somigliano al mondo-referente, ma che in realtà ne sono una trasposizione, una riproposizione non solo dei caratteri etici/estetici quanto delle possibilità generanti. Parliamo di cose quotidiane in esempi pratici: azioni possibili, azioni quotidiane, lavorare, andare a lavorare, emettere scontrini, raccogliere, accumulare, crearsi hobby, le situazioni della vita, tutto è passibile di analisi, tutto potrebbe passare sotto il setaccio di Camilla Gurgone, alla ricerca della pietra d’oro. Tolta la sabbia dal setaccio, tuttavia, rimangono infinite possibilità: acqua che è acqua e acqua che è scultura dell’acqua, tubi che sono subi e tubi che non lo sono, video e funzioni d’uso che sono se stessi e altri che non lo sono. Infine si tratta di tracce di comunicazione: parole appunto, bigliettini, nomi, chiamate, cifre, acquisti, e, dopo la fine, memorie: ricordi di passeggiate, abitudini familiari. Il reale concreto è pennello e al contempo colore, immagine riflessa e al contempo trompe-l’oeil, dipinto e specchio. Maya non saprebbe cosa togliere poiché niente è reale e tutto è lecito, e tutto è verosimigliante. La statura noumenica si confonde con quella fenomenica. L’oggetto è somigliante o identico a se stesso. Si ottiene una crasi: è deprivato di ogni sua funzione, ricostruito, ripensato, ma al contempo tenuto nel verosimil-contesto sociale della sua enunciazione.
Per intenderci Camilla stessa non è più lei, è un idraulico, macellaio, gelataio, una bambina, uno studente, e al contempo è lei, durante e insieme. Proprio come le parole sono le parole dette. Con ogni evidenza sono loro, eppure si adattano modificandosi nel senso, si tolgono senza colpo ferire e col gesto dello zoom aprono focus. Una volta enunciate le parole ritornano contenitori capienti, se necessario generano il contesto stesso, lo colorano, lo riempiono e lo saturano. Per chiudere la partita lo avvolgono nella loro assenza silenziosa o nel loro caotico intercedere, brusio, materia magmatica che si sposta e si forma come acqua, come lava. Acqua o fuoco da toccare e a cui non prestare troppa importanza, perché sono solo enunciati. Vita che si accompagna alla vita come percorso che procede nel percorso. Possibilità recondite.
In questo modo è possibile fruire di micromondi che sono scenari ma non sceneggiature, sono quinte, ma non di teatro, sono opera pittorica ma non quadro, scultura ma non monumento. Mondi possibili che vanno visitati in sogno e in esposizione; che parlano e raccontano dei mondi referenti come le parole parlano di qualcosa di accaduto. Meglio: di accadibile.