Nelle sale della storica Galleria Russo è stata inaugurata il 27 maggio la mostra di Luca Di Luzio a cura di Marco Tonelli. L’esposizione ripercorre gli ultimi otto anni di attività dell’artista romano mostrando al visitatore un mondo fantastico che mescola arte e geografia. Il dato scientifico si mescola con l’esperienza personale e i principi della pittura, dando luogo a una cartografia immaginaria che riporta alla mente le vecchie mappe, frutto dell’unione di leggenda e realtà. I quattro cicli esposti insieme rendono manifesta l’evoluzione e la coerenza di un approccio tutt’altro che scontato nei confronti della geografia e della cartografia.
Il ciclo Maps and Flags (2013 – 2014) introduce il visitatore in un nuovo sistema, arbitrario e personale, completamente separato rispetto alle immagini cui siamo abituati. Si tratta, infatti, di mappe e bandiere inventate, nelle quali lo spettatore resta incerto nel riconoscere quelle forme e nell’associarle a ciò che conosce. Di sfumature quasi spirituali si permea invece il ciclo Loka (2014 – 2015), il titolo deriva dell’espressione sanscrita che nei testi sacri induisti indica i mondi posti al di sopra e al di sotto della terra. Grandi tele di juta simili ad arazzi accolgono le rappresentazioni di questi mondi metafisici e la raffigurazione di questi luoghi invisibili.
Nel ciclo Atlas Ego Imago Mundi, Luca Di Luzio riesce a dare alla sua suggestiva cartografia una connotazione del tutto diversa oscillando tra consueto e insolito senza perdere l’equilibrio e realizzando un lavoro dalle molteplici sfumature. Questo ciclo si compone di una serie di circa quaranta opere su carta, sempre incentrate sul tema delle mappe, cui si aggiunge un libro d’artista che diventa atlante. Il ‘formato’ sembra quindi riavvicinarsi a quello solitamente utilizzato per la rappresentazione e divulgazione di mappe, tuttavia, entra in gioco una componente quasi performativa che sposta il tema: centrale non è più solo la cartografia, ma il corpo e quest’ultimo come medium indispensabile per conoscere il mondo. Il corpo diventa matrice di un nuovo sistema geografico, in cui ogni elemento naturale rappresentato si rivela essere impronta, traccia di una parte del corpo dell’artista riportata su carta, un costante mondo in costruzione che si fonda su mani, piedi, gambe e altre parti del corpo. Una pratica artistica che affonda le radici nel body panting e nella performance (vengono in mente Yves Klein, Lilibeth Cuenca Rasmussen o Kazuo Shiraga), ma che in Luca Di Luzio perde quella componente carnale e talvolta aggressiva introducendo una definizione volontaria tramite l’utilizzo di un pennino che delinea i contorni con precisione e attenzione. L’artista si muove tra casualità e controllo nel mostrare come il corpo stesso sia principale protagonista dell’esperienza che facciamo del mondo.
«Nel mio percorso di ricerca Atlas segna l’abbandono del pennello. Ogni mappa, ogni pagina di questo mio atlante nasce spalmando il colore direttamente su una parte ben definita del mio corpo, destinata, una volta impressa sul supporto pittorico, a diventare matrice di un pezzo di un mondo in costruzione».
L’impronta del corpo assume una nuova fisionomia trasformandosi in veicolo di documentazione di mondi immaginari, allontanandosi dal carattere performativo, giocoso o provocatorio di illustri predecessori come Marcel Duchamp (With my tongue in my cheek) e Jasper Johns (Skin with O’Hara Poem). A quest’ultimo però si riallaccia per un aspetto, ossia la ricerca su forma e colore: un’immagine familiare, come può essere una mappa, diventa oggetto di un’indagine compositiva e cromatica, non una riproduzione puntuale e realistica, ma una rappresentazione astratte. Lo stesso accade nell’ultimo ciclo esposto, Lo Stato (2020 – 2021), in cui Di Luzio si muove tra astrazione e figurazione. Anche in questo ultimo lavoro infatti è assente il pennello, ricorrendo però a stampi con la forma di alcune nazioni. Le impronte riportate sul supporto di carta giapponese si moltiplicano facendo perdere di vista la singola figura in favore di un’immagine collettiva, una composizione astratta che richiama le vedute aeree.
Guardando alla contemporaneità Luca Di Luzio sembra quasi fare da contraltare a Pietro Ruffo, l’uno orientato verso una geografia del corpo, tendente all’astrazione, l’altro votato a una cartografia antica che si mescola con l’astrologia. Nel complesso Luca Di Luzio offre una declinazione personale e affascinante, una geografia immaginaria, ricca di suggestioni e stimoli, difficilmente accostabile ad altri artisti che hanno affrontato gli stessi temi.