Quello che non ricordi diventi, Luca Grimaldi, Fabio Ranzolin, 2021, installation view, courtesy gli artisti e White Noise Gallery

Secondo alcuni studi scientifici, la nostalgia è definibile come uno stato emotivo vicino alla tristezza che porta a idealizzare il passato più recente, ripensando a momenti e ricordi comuni che si vorrebbero rivivere. La nostalgia è, inoltre, considerata una risorsa esistenziale in grado di aumentare il tono dell’umore, rinforzare l’autostima e la sensazione di vicinanza agli altri. Negli ultimi anni, è indubbio che ci sia stato un ritorno repentino a una cultura visiva ed estetica pop che pone le sue radici nei fantomatici anni Novanta, un decennio tutto fuorché perfetto. Al pari degli anni 90’ della Generazione perduta, i moderni anni 90’ sembrano essere l’ultimo momento felice. Eppure, tale nostalgia dei nientes ha inconsapevolmente messo in luce il fallimento di un’intera decade. L’oggi, in questo repentino sguardo all’indietro, racconta di una sovversione di contenuti, mostrando gli anni 90’ come un’interminabile festa ed eterna allegria.
Quello che non ricordi, diventi è l’incipit di una riflessione collettiva che indaga il sentimento malinconico e nostalgico di quegli anni attraverso chi li ha vissuti e chi, invece, ne ha soltanto un vago ricordo. Luca Grimaldi (1985) e Fabio Ranzolin (1993), in questa doppia personale ospitata da White Noise Gallery e a cura di Eleonora Aloise, Carlo Maria Lolli Ghetti e Chiara Garlanda, hanno dato vita a un’estetica romantica e per certi aspetti anacronistica. Il loro lavoro scandaglia gli aspetti più intimi e anche frivoli della società odierna attraverso una composizione fatta di riferimenti visivi che appartengono a un immaginario del quotidiano in grado di innescare e creare memorie e ricordi.
La mostra si muove in un percorso che è fatto di salti, di inciampi visivi e di forti sospensioni cromatiche in grado di rievocare un nuovo equilibrio emotivo e relazionale con un passato che è ancora vivido. La cosiddetta memoria involontaria di cui Marcel Proust fa uso per le sue madeleine, ha un forte impatto emotivo sulla lettura delle opere che i due artisti propongono negli spazi della galleria. Si tratta di elementi svuotati in cui il ricordo e la memoria sono accompagnati da una malinconia romantica. In effetti, ripensando agli anni Novanta questo corpus di immagini, colori e sperimentazioni, oggi sembrano assumere una perdita referenziale del proprio significante. Non si parla però di “società dei simulacri” – come direbbe Jean Baudrillard – bensì di un tentativo di evasione che vede nel significante un ruolo predominante rispetto al suo significato.
Le opere che gli artisti propongono permettono di ripensare questo sentimento attraverso più livelli di lettura, riuscendo anche in un esercizio di sintassi stilistica che perfettamente si accomuna e allo stesso tempo si distingue. Spaziando dalla pittura, alla scultura, fino all’installazione, entrambi gli artisti costruiscono e ripercorrono i simboli più emblematici del secolo scorso in una riformulazione visiva del quotidiano e dell’estetica delle visual cultures.
Luca Grimaldi ci racconta del dilemma contemporaneo attraverso un immaginario fatto di corpi in attesa. Tali figure mastodontiche sono delle non-identità, simboli della società di massa, dei consumi e dell’omologazione. Il lavoro di Grimaldi trae ispirazione proprio da immagini stock, da modelli ripetuti, luoghi comuni e anche di cliché. In questo caso ci introduce in una temporalità sospesa, congelata appunto in un parallelismo tra un’epoca e l’altra in una rappresentazione ironica, ma anche fortemente malinconica. Tale visione tagliente che acquisisce input dall’immaginario collettivo, si presenta anche in forme scultoree discontinue ed interrotte creando un cortocircuito visivo ed emotivamente potente.
Fabio Ranzolin, invece, celebrando il clubbing dei nientes indaga il tema dell’identità culturale attraverso l’appropriazione di riferimenti visivi presi in prestito dai linguaggi delle visual cultures. È così che Ranzolin fa della nostalgia un codice identitario, dando vita a un dialogo interrotto, un collage digitale e un circuito chiuso, che celebrano in modo differente ma complementare una libertà apparente, frivola, vezzeggiativa e festaiola quale quella degli anni Novanta.
Nell’elogio di un decennio che è stato caratterizzato da innumerevoli eventi, lascia in sé un profondo vuoto, un’attesa che oggi è frutto di un tutto che stenta a decollare e che cerca ancora negli alveoli del passato delle forme di evasione. Così si celebrano i ricordi più spensierati in un revival nostalgico quanto volubile, in attesa di un boom generazionale che acquisisca maggiore consapevolezza di ieri quanto dell’oggi. Luca Grimaldi e Fabio Ranzolin si fanno portavoce di un sentimento che unisce e separa inconsapevolmente due generazioni che si guardano: l’una disillusa dalle promesse del futuro; l’altra immobile e in cerca di un rifugio fatto di spensieratezza e forse possibilità.

Quello che non ricordi diventi, Luca Grimaldi, Fabio Ranzolin, 2021, installation view, courtesy gli artisti e White Noise Gallery