Photo Eleonorra Cerri Pecorella

È questa la prima o l’ultima notte sul nostro pianeta?
Così reca come sottotitolo NUTI.SCARPA, esposizione alla galleria Alessandra Bonomo che mette a dialogo l’opera di Lulù Nuti e Delfina Scarpa. La mostra, tracciando armoniosamente le coordinate di un incontro di due poetiche differenti, rivela il proprio fascino nella soave e leggiadra capacità di esaltare tenui contrasti cromatici e riverberi iridescenti nei lavori delle rispettive artiste, che esplorano come nuovi ecosistemi possibili, inedite forme di interazione fra luce e materia, organico e inorganico, nell’elegante cornice della galleria che fa da sfondo a questa morfogenesi plastica e pittorica.
Oltre l’atmosfera quasi irreale e fiabesca, la ricerca delle due artiste mostra caratteri compatibili ma profondamente dissimili. Dalla superficie aspra e scabrosa, eppure straordinariamente lirica, l’opera scultorea di Nuti evoca con vigore un mondo minerale e prezioso dove gemme impreviste sorgono da processi entropici e rigeneranti che emancipano la materia dall’illusorio dominio dell’uomo. Emerge un abisso pietrificato, ancestrale, sorta di rovescio del mondo terrestre, orfano della propria popolazione originaria ma accogliente, o meglio, duttile nel ri-organizzarsi a nuovi spazi e configurazioni. Si tratta, infatti, di opere site specific che nella particolarità della propria conformazioni agilmente si adattano al territorio in cui si insediano, ri-scoprendo punti di contatto e definizione che espandono le qualità metamorfiche della loro matrice creativa, come dei gusci cavi generanti contro-modelli che rivelano l’alterità di una oscura origine, attraverso la forza di un negativo rizomatico e produttivo. Questi gusci talvolta sono scorze opalescenti che rivelano nuclei eccentrici, seducenti come perle, dalle forme informi, alternativamente isomorfe e biomorfe, generate da stratificazioni interne che si proiettano su una scala macroscopica a memoria di movimenti tettonici che riguardano l’intero globo terrestre, i suoi cicli vitali, fatti di sopravvivenze ed estinzioni. Una narrazione pre e post umana di ibridazioni continue. Così, osserviamo la foresta oceanica di pali di “Mari”, composta bandiere rapprese, composte di residui policromi, che idealmente sventolano mosse flussi abissali, salutando un ideale di territorio e dominio, spalancando nuovi orizzonti.
“Calcare il mondo”, titolo di quella che è un’esperienza progettuale aperta – che investe un numero eterogeneo di opere-, si avvale dell’antica tecnica del calco per liberare il gesso e il cemento da casseforme fisiche e concettuali, restituendo alla plasticità di questi materiali un’euristica della significazione che sfugge ai paradigmi antropocentrici. Il dispositivo di partenza è un gesto, ma si tratta non di un gesto non rudimentale, grezzo, come testimoniano i “Leftovers”, realizzati dall’incontro di una matrice con materiali di scarto. L’inconscio tecnico del calco realizza un gioco che mostra profonde implicazioni teoriche, come scrive Georges Didi Huberman ne La somiglianza per contatto. Ritenendo che non esiste una storia dell’impronta nelle arti visive, lo studioso esplora un’alternativa rispetto il modello di una storia dell’arte umanista, che costruisce la propria cifra intellettuale sul principio della mimesi. Didi
Huberman ci parla dunque di un mezzo che realizza quell’immagine dialettica di benjaminiana memoria, costituita come una costellazione di tempi eterogenei, dove il presente e il passato si incontrano in un vortice che erode l’idea di un’origine, così come quella di una singolarità creativa. In questo modo la prima notte può essere anche l’ultima, il trauma della nascita può dire quello della morte, alla maniera in cui queste pietre possono dire la memoria dell’uomo nonostante sembrano accoglierne la forma per meglio conservarne la fine. Questa storia senza storia, senza uomo, è precisamente quella del trauma.
Bracha Ettinger quando parla di spazio matriciale – costrutto psicanalitico che spiega il ri-emergere di traumi collettivi, ferite transpersonali attraverso generazioni – ci parla della sua condizione ereditaria, e la narrazione geologica di “Calcare il mondo”, racconta di un’altra genesi che sconfina nel romanzo per immagini fantascientifico, apocalittico, ma anche nella poesia.

Photo Simon D’Exea

Photo Simon D’Exea