La morte non è nel non poter comunicare ma nel non poter più essere compresi.”

(P. P. Pasolini)

Nel lavoro di Antonello Bulgini (1960-2011) ritroviamo una dimensione pittorica poetica, a tratti spigolosa, nata dalla commistione di cultura italiana e tedesca. Emozioni e sensazioni camminano fino a giungere al confine (mai veramente toccato) col disagio e con l’angoscia.

Nei suoi omaggi ritroviamo grandi maestri della luce e dell’espressione. Ritroviamo Velasquez, Bacon, ma anche la cultura rinascimentale, e via via, deformazioni nostalgiche e oniriche alla Goya, il Goya del sonno della ragione che genera mostri.

Ogni visione genera mondi, e il sonno della ragione genera mostri. Ma cosa succede all’eccessiva veglia della ragione? Il mondo assale la mente sovra-realisticamente, surrealtà intesa come luogo dell’inconscio reso conscio, il recondito trasformato in visione esplicita.

Un tutto che ci capita tra i piedi e che viene usato e trasformato alla bisogna. Non la maniera sterile della citazione, bensì l’inglobare elementi scelti per elettività e tradizione; portarli dentro alle proprie bruciature, a fianco dei propri mostri. Antonello è forse l’eccessiva veglia della ragione. La coscienza ipertrofica delle immagini che ci sovrastano: una visione esplicita di deformazioni liriche. Possibili bruciature di segno e di significato.

La presa di coscienza forte e dolorosa dei limite del reale trasforma la notizia “lieve” nel sorriso di se stessa: costituisce un mondo generato da mostri addomesticati. Invitare molta gente al ballo significa anche nascondersi, sentirsi meno estranei. Il buffone al centro dell’attenzione non è necessariamente l’estroverso. La sua introversione consiste nel segreto, il caos e il silenzio insieme. Il vuoto alle spalle. Per un istante l’accamparsi di gitto di esistenze di “montaliana” memoria. Di schiena “andarmene col mio segreto”, pare dire in silenzio. Ma dalla visione del nihil, o del niente, (forse quella di Montale la più lucida e poetica del novecento italiano) si cammina invece verso un’estroversione, una conversione in vita coraggiosa. Un nihil ridefinito che non è annientamento ma esistenziale presa di coscienza e di responsabilità. Licenza al tutto, pittoricamente parlando. Non sartriana nausea bensì vita che continua con la segreta coscienza dell’insolubilità di se stessa, meglio: della sua insolubile soluzione. Non sono casuali gli omaggi, il Duchamp più segreto di etant donnè, capolavoro di voyerismo e visione… quello che vedo è più importante di quello che è. Siamo col saggio della montagna: se nulla è vero, allora tutto è concesso, (si intravede il ballo dentro cui nascondersi esibendosi).

Ogni estensione di ogni io è concessa. Dunque la presa di coscienza forte e dolorosa dei limiti del reale trasforma le cose. Tutto nel mondo è da amare, specie l’imperfezione. Il desiderio che siano il nuovo sorriso di se stesse, mondo generato da mostri addomesticati, la lucidità della ragione, si diceva.