Marco Antelmi, Demigrare, 2019

Testo di Mattia Cucurullo

Demigrare (2019) di Marco Antelmi è un documento di protesta che vive di una dimensione contingente, riflettendo quasi la temporalità della manifestazione contro il Decreto Sicurezza, soggetto della ripresa, che si presenta in modo prepotente al nostro sguardo. È una testimonianza forte, che non traduce questa energia in quella violenza incontrollata, e in ultima analisi distruttiva, che descrive così bene Jean Luc Nancy in Tre saggi sull’immagine, bensì in un gesto che si potrebbe definire foucaultianamente come etopoietico. Contro il concetto astratto e estetizzante di poetica, la ricerca di Antelmi si muove verso un fare trasformativo che implica un posizionamento assertivo rispetto molteplici piani di realtà che intersecano il nostro essere-nel-mondo. In questo processo, dei documenti materiali della protesta non resta nulla, rifiutati come una sorta di recrudescenza feticistica dell’oggetto artistico. Fusi in un unico gesto, l’atto del registrare e quello del manifestare sono azioni politiche filtrate attraverso un registro formale ironicamente giornalistico. A cosa assistiamo? A una diretta distopica, un TG fantascientifico dove all’accadere dell’evento si sovrappone una voce aliena che “legge” una poesia.

Un primo livello di lettura ci porta a cogliere gli aspetti più didascalici del video: la prima immagine, un banner ricavato da una coperta termica, presenta in caratteri eloquenti la dichiarazione di intenti della produzione artistica e politica. “Libertà di partire /Diritto di arrivare/ Libertà di restare” è il testo, uno slogan nato dalla cooperazione dell’artista con i vertici dell’organizzazione, e che rivela in comune con il testo che ascoltiamo, La vera prigione di Ken Saro-Wiwa, una secchezza paratattica, soluzione (anti)retorica. Presto la prospettiva si dinamizza. Siamo per strada, in mezzo alla folla, e vediamo svolgersi gli eventi come attraverso un’inchiesta tele giornalistica che mostra questa scendere in strada e riunirsi, da pomeriggio a sera, per dirigersi verso il CPR (Centri di Permanenza per il Rimpatrio), bersaglio polemico di questa parata eterogenea e vitale. Ci immergiamo nel cuore dell’azione, in una posizione eccentrica ma intimamente coinvolta come al cospetto di un battito plurale, di una pulsazione che attraversa i corpi.

La struttura simmetrica del video al termine della ripresa ci riconduce al soggetto della scena iniziale – il banner, questa volta catturato in una ripresa quasi malinconica, reso nello svanire di un fade out analogico – dialogando con un secondo registro che problematizza tali premesse. Come la rispondenza della ripetizione dei tre “Non è” con i tre “È questo” nella poesia di Saro-Wiwa, pendant che sottolinea l’insistenza di uno stato di cose insostenibile, la struttura del video propone un’alternanza simmetrica ma sbilenca, che contempla visioni distorte, rispondenti alla lettura di La vera prigione. Quello che si verifica è un’interferenza che altera il flusso di immagini rese senza filtri. In quest’ottica, definiamo “secondo registro” una possibile chiave di lettura, che qui sovrapponiamo teoricamente a quella precedente, sebbene rispetto la temporalità del video questi due registri si situino su un medesimo asse esperienziale, integrandosi in maniera disarmonica. Tale operazione conferisce alle immagini un livello di significazione ulteriore, o meglio, disturba il senso del presunto stato di cose che vediamo. Logorante, sentiamo il peso dei versi poetici freddamente declamati dalla voce robotica di un traduttore online agire sulla qualità del video, corromperla in una dimensione low fi, saturando le riprese di colori fortemente espressivi, discordanti, anomali. Il peso sensibile di parole crudamente liriche pronunciate da una voce senza corpo, smaterializzata trova un segreto canale di comunicazione con l’evento, con la brutalità della crisi sociale in atto che trova una eco nella rudezza del montaggio e nello shock percettivo che tale interruzione realizza nello spazio della ripresa. Questa forma di registrazione rivela la struttura polare del video, non dialettica nell’accezione semplicistica del termine, in quanto nessuna sintesi estetica o concettuale risolve l’eterogeneità di un materiale poetico che sfocia nel politico, mentre dall’inchiesta si passa alla fiction ucronica.

Questo processo di ibridazione semantica, che conduce al parossismo l’atto sommamente normale di guardare distrattamente un TG, perturba il consueto flusso comunicativo, opacizzando il linguaggio. La trasparenza della resa obiettiva di un presunto “reale” si tramuta così in un intreccio a “maglie larghe” che intercetta determinazioni altre, esterne a un registro di significato stabile. Paolo Fabbri, nel definire un fenomeno largamente contemporaneo, parla di mash up iper moderno, in opposizione al remix postmoderno, intendendo una forma di ibridazione e ricombinazione alternativa di sintassi e elementi significanti. In Vedere ad arte. Iconico e Icastico lo studioso afferma: “Non bisogna dimenticare che l’ibrido non è solo montaggio di pezzi: è la possibilità di ‘montare’ sistemi espressivi diversi, che però siano in grado di permettere un qualche principio di reciproca traducibilità.” Chiasmo e vettore di questo processo di reciproca modificazione, l’effetto del glitch sfrutta un immaginario fortemente tecnologico. Termine mutuato dal linguaggio dei videogiochi, con esso si intende la possibilità di un cortocircuito capace di stravolgerne l’assetto normativo. A differenza del bug e del cheat, il glitch non paralizza né sabota né l’integrità del gioco, consentendo piuttosto un abbattimento delle barriere imposte dal software, realizzando una condizione vantaggiosa per il giocatore. Una libertà imprevista, dunque.

Non rimane che chiederci di che libertà ci parla Demigrare. Che sia quella di un alieno-robot, un’incarnazione high tech dell’alterità, capace – forse – di risvegliare un’umanità sopita e latente in donne e uomini ancorati a ideali umanisti che oramai hanno perso di senso? Ridotti a tristi baluardi. Emergerebbe, piuttosto, una nuova sensibilità, qualità non più umana. Che questa sia divenuta appannaggio di quel soggetto nomade di cui parla Rosi Braidotti? Come le persone catturate dalle riprese di Antelmi, nessuna inquadratura sarebbe più capace di definire un centro e una periferia, un insieme organico. Nessuna figurazione possibile, se non quella di un movimento, di un trasmigrare, di un demigrare.